Io sono verticale // Sylvia Plath in “La voce dell’anima” – prof. Ciro Sorrentino

Io sono verticale // Sylvia Plath in “La voce dell’anima” – prof. Ciro Sorrentino

Io sono verticale
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero
con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare
di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà
di un’aiuola ultradipinta
che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto
dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me,
un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta,
ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita,
dell’altra mi manca l’audacia.

Stasera,
all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso
i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo
ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro
nel modo più perfetto
– con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo ed io
siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno
che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno,
i fiori avranno tempo per me.

Sylvia Plath

28.04.1961, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

Io sono verticale // Sylvia Plath in “La voce dell’anima” – prof. Ciro Sorrentino

Si presti attenzione al titolo che avvia la poesia Io sono verticale: in esso è esplicitata in maniera immediata la condizione dell’appartenere alla specie umana, dotata di intelletto e, dunque, della capacità di far riferimento al contesto “spazio – figurale” in cui l’io narrante si ritrova. In questo spazio fatto di posizioni e collocazioni, in questo dirsi Io sono verticale, Sylvia Plath ha piena coscienza di camminare, di essere dotata della capacità di spostamento (capacità di spostamento, dunque, potremmo parlare di un viaggio di conoscenza e di compenetrazione con l’ “Assoluto”.

Sembra quasi che Sylvia Plath, dall’alto della sua scienza e conoscenza, della sua essenza angelica, stia osservando il mondo o, almeno, quella parvenza di realtà, nella quale si trova scaraventata. C’è da chiedersi cosa ha visto intorno a sé che le fa desiderare di collocarsi in altra posizione rispetto a quella eretta, dell’ Io sono verticale? Si ma verso dove? Sylvia Plath sembra girare su se stessa, e scruta gli orizzonti, nei giorni che si susseguono, con tale monotonia che sente un bisogno di evasione.

Una volontà di autodeterminazione la spinge a sognare, a ipotizzare di mescolarsi alla terra – madre, come per sentirsi partecipe di quel mistero della creazione, e ricondursi all’origine del tutto. Ecco il respiro infinito di Sylvia Plath, quella sua voglia di volare e viaggiare per smisurati cieli, dove raccogliere indizi e tracce che la conducano alla scoperta della grande verità, della verità primordiale, e delle molteplici vite che popolano gli universi. Per realizzare questo progetto, Sylvia Plath sa che dovrebbe mutare la sua posizione nello spazio, il suo Io sono verticale, sa che dovrebbe annullare le geometrie, dovrebbe porsi oltre le frontiere del tempo per essere in grado di percepire e assimilarsi alla terra – madre, e, dunque, all’eternità.

Stupenda l’immagine della vita, almeno di questa conosciuta, raffigurata dalle cercanti “radici” di “un albero”, un piccolo albero che al pari di un neonato ha bisogno di nutrirsi e che, per poterlo fare, necessita della presenza di una madre. Sylvia Plath sa che per l’albero c’è la terra – madre, così presente e rassicurante nella sua consistenza di “minerali”, e tanto intrisa di pure e fresche stille d’acqua che alimentano sorgenti di vita.

Viene spontaneo chiedersi quale presenza manca a Sylvia Plath, forse la madre? Sarebbe troppo riduttivo e falso sostenere questa tesi. Il concetto di madre va allargato e riconsiderato in una visione diversa: la madre è la stessa vita, non certo la donna che partorisce e cresce i propri figli. Questa madre/vita, per Sylvia Plath è un’entità sfuggente, imponderabile, assente: l’angelo, che si racconta in versi mirifici, è fuori dal contesto spazio – tempo, oltre questa non – vita che in sostanza è la vera morte.

La poetessa desidera, vorrebbe, sa di non poter rinascere nelle primavere odorose di questa sua “ennesima” vita. L’attualità della sua condizione umana è sottoposta ad una penetrante verifica, e la sua razionalità, che è immensa scienza di Dio, le vietano di illudersi: non potrà essere una giovane foglia, nè una sconfinata distesa di variopinti fiori. No, non potrà essere parte di questo presente, di questa vita – morte: la sua scienza del mondo le mostra già il futuro: le foglie e i fiori vivono della loro bellezza e fanno sospirare, sono parte di un ciclo della natura che si autorigenera.

Ecco siamo al punto nodale, Sylvia Plath sa che almeno in questo non – tempo, in questa non – vita, in questo non – spazio, non può autorigenerarsi: e questo accade perché troppo infinita è la sua percezione, immensa la sua visione e comprensione di ciò che vede. Sylvia Plath non vuole, non può, non è capace di ingannarsi e guarda innamorata l’albero e i fiori, le creature che si rincorrono nell’immediatezza e nella spontaneità, nella purezza di un ciclo senza fine. Si allungano i rami, crescono le foglie, facendo ombra ai fiori che senza timore si slanciano, si sospingono verso il cielo, e che cercano il sole.

Ma tutto questo non può essere realizzato dall’uomo, così assurdamente vincolato nei meandri senza movimento della sua non – vita. Sylvia Plath di questa immobile circolarità, di questa fissità che incatena e schianta fa un’aperta denuncia. La sua anima sente i fluttuanti suoni del cosmo, quell’insieme intersecante di miliardi di nebulose, galassie, stelle che muoiono e rinascono. Gli astri, il loro implodere ed esplodere, quel loro diventare buchi neri e, quindi degli “stargate” (porte delle stelle), affascinano Sylvia Plath. E una così immensa poetessa come potrebbe restare impassibile ai richiami degli sconfinati mondi della cui sostanza è fatta?

Dalla terra – madre, dagli alberi in fiore la vediamo slanciarsi per raggiungere il nucleo del cosmo, cuore e sostanza da cui ogni altra cosa ha origine. Ormai nella sua evasione dal mondo degli uomini e dagli orizzonti conosciuti, Sylvia Plath ha preso le distanze, non ha bisogno di lasciarsi lusingare da inebrianti ma inconsistenti profumi, né si aspetta un raggio di luce astrale. È oltre il visibile, “ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso”.

Cosa dire poi dell’ossimoro “a volte io penso… – con i miei pensieri andati in nebbia”: potrebbe sembrare un paradosso pensare con la vista appannata. Ma no signori miei! Sta proprio qui l’immensità di Sylvia Plath, è nello svestirsi di quella presunzione di ragionevolezza, nella nudità dell’anima che permette alla mente di ritrovarsi viva, viva e vera nell’unica dimensione assoluta e magica, divina ed eterna del sogno. È nel sogno che si vive, è nell’estraniarsi alla realtà degli uomini che si aprono le porte del tempo, allora lo “stargate” lascia che l’anima viaggi, voli, si inerpichi sulle cime più alte dei più lontani mondi per vedere, ammirare e fondersi all’ “Eterno”.

Cosa cerca, dunque, Sylvia Plath?

Ma, sicuramente, la via che la conduca alla verità, alla salvezza eterna, al rendersi parte di quella creazione/non-creazione che esiste da sempre.

E in questa sua intenzione è ferma, decisa e si dispone a riconciliarsi con le particelle infinitesimali della terra, quella terra che le accarezzerà le spalle, mentre lei si immergerà nell’estasi di quell’ “…infinitesimo lume delle stelle…”. In questa simbiosi, nell’estasi contemplativa, da un lato, avrà modo di toccare i cieli, di palpare e sentire la loro sostanza, dall’altro, la terra – madre, nella forma degli alberi e dei fiori, l’avvolgerà nel perenne ciclo della rinascita.

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Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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