Mistica // Sylvia Plath in “La voce dell’anima” – prof. Ciro Sorrentino

Mistica // Sylvia Plath in “La voce dell’anima” – prof. Ciro Sorrentino

Mistica

L’aria è un mulino di roncole —
Domande senza risposte,
scintillanti e ubriache come mosche
di cui i baci scottano insopportabilmente
negli uteri fetidi di aria nera sotto i pini estivi.

Ricordo
il morto odore del sole sulle cabine di legno,
la rigidezza delle vele, lenzuola lunghe avviluppate dal sale.
Da quando si è conosciuto Iddio, qual è il rimedio?
Da quando si è stati inquadrati

senza che mancasse alcuna parte
nemmeno un dito del piede, della mano, e che si è stati usati
del tutto usati, nella conflagrazione del sole, le macchie
che protuberano da antiche cattedrali
qual è il rimedio?

La pillola della pasticca per la Comunione,
il passeggiare accanto ad acque quiete? La memoria?
O il raccogliere scintillanti frammenti
del Cristo nei musi di rodacei,
gli addomesticati roditori di fiori, quelli

di cui sono così poche le speranze che si sentono confortevoli–
La donna gobba nella sua casetta linda
sotto i raggi della clematide.
Non v’è amore dunque, ma solo tenerezza?
Forse che il mare

ricorda chi vi cammina?
Intendendo falle delle molecole.
I camini della città respirano, la finestra suda.
I bambini saltellano nelle loro brande.
Il sole fiorisce, è un geranio.

Il cuore non s’è fermato.

Sylvia Plath

Mistica // Sylvia Plath in “La voce dell’anima” – prof. Ciro Sorrentino

In Mistica Sylvia Plath fornisce una summa della sua poetica, disponendo in perfetta sintesi tutte le suggestioni emotive e i pensieri che da sempre hanno percorso la sua arte. Da questa fusione di genialità e ritmo musicale deriva una sovrapposizione spontanea di suoni e colori, un crescendo espressivo e drammatico che sottende una tesi gnoseologica e una teoria Mistica.

È nelle forme e nei modi di una valutazione prospettica ed ermeneutica che bisogna collocarsi per “leggere” e decodificare i segni e i simboli compresi nei versi che compongono Mistica, testo fondamentale per una nuova ed autentica interpretazione dell’ideologia di Sylvia Plath. Occorre liberarsi dal pregiudizio che un’autrice di tale livello (lo stesso vale per tutti i più grandi artisti) sia condizionata nello scrivere dagli eventi della sua vita privata: semmai, quelle circostanze sono state “esorcizzate” e inquadrate in una prospettiva più ampia a livello di riflessione “speculare” e critico – conoscitiva.

Nel caso di Mistica, la parola di Sylvia Plath riflette gli aspetti essenziali di una meditazione filosofica che si presta all’elaborazione di una “chiave” di lettura della dimensione spazio – tempo, o della “distorsione” dell’universo conosciuto. I versi di Mistica si dispongono come una sintesi esaustiva dell’indagine artistica di Sylvia Plath, sono essi l’epilogo di un’estenuante ricerca di una verità ultima ed assoluta, l’unica adatta a “mediare” un possibile “approdo” su un’isola felice. La donna/eroina, l’eroina/angelo, l’angelo/Dio, Sylvia Plath ha compreso, in maniera definitiva e tragica che la realtà visibile è paragonabile ad un tuttonulla in cui ogni evento può dilatarsi e restringersi, secondo l’intendimento con cui ci si dispone ad “osservare”.

Nell’ottica di un realismo – critico, è manifesta l’idea di un vuoto impossibile da colmare, e altrettanto evidente è l’intenzione di voler rappresentare un indicibile dolore prodotto dallo scontro dualistico tra l’io privato e la storia stessa degli uomini. La dialettica derivante da questa estrema dicotomia, che si sviluppa come mancata comunione tra le ragioni dell’io profondo e la prevaricazione della storia, mentre opprime tutti quelli che non s’avvedono del baratro delle sabbie mobili, emancipa e libera chi, come Sylvia Plath, è riuscito a cogliere e scorgere le “atmosfere” stranianti e divinatorie dell’esperienza. Sylvia Plath diventa oracolo di una verità innegabile: l’uomo è solo di fronte ad una “poliedricità” di significati che finisce per generare un ulteriore vuoto interiore e altrettanta impossibilità a “sentire” la vita e la morte come unicità di un tuttonulla che sovrasta ogni evento. Tanta disarticolazione e disarmonia della realtà visibile spinge Sylvia Plath a valutare con apprensione verso quale meta dirigersi, affinchè il “viaggio” intrapreso le dia la possibilità di ritrovarsi nella “circolare” coscienza del tuttonulla.

Si diceva in apertura che Mistica ripercorre i motivi di fondo e gli orientamenti artistici dell’autrice e, di fatto, nel susseguirsi dei versi, emerge forte un bisogno intellettuale di guardare in ogni direzione per carpire “segni” e sciogliere dubbi, svelare i segreti che pervadono la natura, gli uomini, l’ignoto. Ancora una volta l’immensa voce poetica di Sylvia Plath si erge come uno squillo di tromba, sembra che questa voce virtuosa stia suonando la “carica” per assestare i colpi vincenti nella battaglia finale con un ipotetico fato della negazione.

Si leva alto il suo grido, e la vediamo cavalcare contro travolgenti venti che mai riescono a disarcionarla. Sua è la spada di Artù, sua la penna che il Verbo scrive sui fogli bianchi della storia. Paladina dello scibile, protettrice delle ragioni profonde dell’essere, è l’angelo che non arretra, che non vuole rescindere dal suo più nobile scopo: la consapevolezza di doversi immergere nelle “turbolenze” della storia umana per placarne la furia devastante.

Sylvia Plath vuole scalare le vette più difficili e impervie, raggiungere le sommità per fissare lontani e nuovi orizzonti; e in questo difficoltoso, a volte, labirintico procedere, si affanna a seguire un “filo di Arianna”, le tracce invisibili che possono condurla a un possibile “Altrove” in cui realizzare una perfetta catarsi. Sylvia Plath, l’io drammatico, il “grillo parlante”, la parola divenuta poesia, è giunta così a comprendere e denunciare la “bolla dimensionale” in cui l’individuo vanamente si dimena, restando sospeso e impigliato come un “pesciolino” nella “rete”.

Ma di quale fitta trama parliamo, di quale aggrovigliati limiti e catene si tratta, quali sono gli abissi che fagocitano, non già Sylvia Plath, ma l’umanità intera nella vertigine che tutto relativizza e sconcerta? È su questa domanda che si costruisce Mistica, è su questo campo insondabile dell’improbabile che Sylvia Plath galoppa, e con la sua “lancia” d’inchiostro sigla e incide i risultati della definitiva vittoria.

L’apertura della lirica muove dalla scoperta che la vita è carica di finzioni: qualcuno o qualcosa, lo stesso procedere degli eventi umani, ha incrinato l’equilibrio naturale, ha alterato la purezza dell’ “aria”. È la denuncia di un mondo che, tutto preso dalla frenesia di manipolare gli elementi della natura, ha finito per negare la possibilità di ritrovarsi nella fragranza di un primitivo respiro.

Quel “mulino di uncini” si erge come invalicabile barriera sul cammino dell’uomo: pale impazzite arginano ogni possibile tentativo di evasione. Ogni sentiero è sbarrato, la mente si ritrova nell’impossibilità di trovare una risposta definitiva, una soluzione tangibile che dipani e dissolva i dubbi esistenziali. La vita è, dunque, un torrente in piena, colmo di finzioni, di ambiguità sfuggenti, che atterriscono e annichiliscono, lasciando “senza risposte”.

Il peso del vuoto diventa un macigno che, nei suoi folli e “scintillanti” rimbalzi precipita improvvisamente, schiacciando l’individuo, i suoi pensieri, i suoi sogni, la speranza. L’ “aria” è stata ridotta a un coacervo di pesanti atmosfere da un mondo insensato, un mondo che vanamente gira intorno ad inutili fedi, artificiose certezze che si appiccicano come viscidi insetti, fastidiose “mosche”. “Mosche” saltellanti, animate portatrici di veleni, che inevitabilmente esasperano senza tregua, straziando il cuore nei meandri della stagnazione e delle oscure ombre.

Ma il dramma esplode nella seconda strofa di Mistica, laddove prende corpo la voce dell’anima di Sylvia Plath, quando si scioglie tutto il suo dolore e la pena si concentra, esaltandosi, in quel “Ricordo”. Ed è, quel ricordo, una rivisitazione drammatica e liberatoria da un’esperienza spaziale e temporale che le ha fornito, paradossalmente, una superiore lucidità d’intendimento. È in questa disposizione razionale e Mistica che Sylvia Plath può svincolarsi dai limiti terreni, riuscendo a realizzarsi come deità, cui spetta la legittima capacità di comprendere e descrivere il tutto e il nulla.

Nella sua solitudine, nel silenzio che le parla, nella grande Mistica “Stasi”, Sylvia Plath può rivedersi allo specchio e sorridere dei tramonti che si riversano sulle misere e fugaci credenze degli uomini, sulle loro “case di legno”, nelle quali presto – come un fuoco di paglia – si dissolvono le attese. La rivelazione improvvisa ed epifanica le consente di percepire un dilagante senso di vuoto, i sogni infranti, le “vele” ravvolte ed inesorabilmente irrigidite dall’inconcludenza che blocca la volontà e l’iniziativa dei piccoli e fragili uomini.

E questa epifania in progress è una scienza divinatoria e immaginifica, la Mistica lungimiranza che eleva Sylvia Plath al di spora di ogni profeta; è lei l’unica creatura mirifica in grado di vedere, nel fondo della spirale dell’inconsistenza, il vero volto di Dio. Ed è solo lei che, dopo aver scoperto la purezza dell’invisibile Oltre, può chiedere come sia possibile continuare a fingere e a patteggiare con una vita ridotta a risibile esperienza. Solo a lei spetta il privilegio di fissare, con lucida comprensione, l’assurdo spettacolo della vita, e solo a lei è consentito affermare che non è possibile librarsi oltre i vincoli umani che creano le condizioni perché gli individui vengano “…usati del tutto usati…”, rapiti, interamente incatenati nel moltiplicarsi delle trappole che confondono e deviano il cammino.

A determinare tale inconcludenza è il falso baluginio delle lucenti cattedrali, le misere fedi degli uomini: conseguenza di tanto disordine è un naufragio nel dilagante non senso, un naufragio al quale Sylvia Plath cerca una possibile e Mistica alternativa, l’ancora che renda stabile la nave nel tramestio delle onde che s’infrangono senza sosta. Quella nave, a ben vedere, è la stessa che lei manovra per raggiungere l’isola felice dove piantare altri semi e ricominciare una nuova e Mistica esistenza.

Sylvia Plath è tutta protesa nella ricerca di un’alternativa da contrapporre agli affanni e alle pene di una realtà che soffoca e che continuamente respinge indietro il vascello del viaggiatore/pioniere che su vergine terra vuole edificare. Ma in questa dimensione terrena sembra che nulla possa dare certezze, e le perplessità si moltiplicano a dismisura, tanto che Sylvia Plath sembra esitare, non trovare riparo, nè mete adeguate.

Forse potrebbe orientarsi alle mitiche fedi, ad un rassegnato silenzio,ad un rifugio nel mito. Ma queste alternative sono ripieghi e non scelte volitive: “La Comunione”, le “acque quiete”, “La memoria” sono indizi di uno smarrimento che defrauda l’uomo di ogni sicurezza, lasciandolo nella desolata condizione del “non so” e del “non posso”. Un’ostia consacrata, un tuffo nelle placide acque, un ricordo felice sono risibili e vani rimedi, sono tutte inutili soluzioni che provocano altrettanta indeterminatezza, un nuovo dilemma, l’ennesima piena di “Domande senza risposte”.

L’indirizzo volitivo di Sylvia Plath sembra voler riporre nella parola Mistica di Cristo l’appagamento di ogni insoddisfazione: un Cristo, tuttavia, svestito dalle false auree proclamate dai contraffattori del vero (emblematica l’immagine della donna ingobbita e pia) che si smarriscono nella risibile fede degli incensi profumati e nel compiaciuto amore per se stessi. Pervenuta allo smascheramento definitivo di ogni infingimento della realtà, Sylvia Plath afferma che nessuna via razionale conduce alla “salvifica catarsi”, perchè la vita è soggetta a una dolorosa sospensione di senso e di sentimento, ad un vuoto d’amore, a colmare il quale non può bastare la “tenerezza”.

Ma facciamo un passo indietro, a quando Sylvia, in apertura, ha parlato di “aria”, “morto odore del sole”, “acque quiete”: sono tutti gli elementi che insieme alla terra, quella mai coltivata su vergine isola, potrebbero dar inizio ad una nuova vita. Questa prospettiva Mistica spiega perché, nei versi finali, si fa esplicito il richiamo al “mare”, l’infinito mare che nella sua vastità di sale, nella sua insormontabile e imprendibile forza può contenere e sostenere il guizzo sfinito, a volte confuso e smarrito, dell’errante viaggiatore.

Si faccia attenzione alla metaforica simbologia del mare: la sua infinita chiarità non è forse rappresentazione della sovrumana energia che appartiene a Dio? L’unico e insostituibile Dio che perdona comprendendo le “falle delle molecole”, le distorsioni e le incrinature che serpeggiano, lasciando annichilito e affranto l’uomo. Proprio questa apertura Mistica, questo divino intendimento fornisce la percezione della possibile rinascita sulle rive di una nuova terra, dove i focolari delle case sono di nuovo accesi e i bambini dormono nelle loro culle.

È ai confini di questa vergine isola che Sylvia Plath si protende, quasi cercando una fusione con il Sole, la luce che si espande e che nessuno può contenere, la luce calda che accenderà il “geranio” della sua primavera, della Mistica incondizionata rinascita. Alla tremenda vacuità dell’esistere, Sylvia Plath si estranea, e si fonde nella Mistica sacralità di un luminoso fiore, il geranio, appunto, che per la sua impalpabile essenza, è simbolo di una natura libera dalle forme di una realtà angusta e minimale, fissata in astratte geometrie.

Sylvia Plath sembra fluttuare tra  profumi, suoni, colori, sa già di essere oltre le luminescenze plastiche dell’umana forma, la vita e la morte le appartengono. Il paradosso morte/vita apre la via alla possibilità di rinascere, e di proiettarsi nell’oltre, nel vivido rosso di un geranio. Sylvia Plath chiude la poesia con l’epifanica Mistica scoperta che “il cuore non s’è fermato”, la storia, dunque, segue il suo corso infinito, la vita si risveglia e con essa la mente e l’anima, quella di Sylvia Plath che di Dio è voce e coscienza.

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Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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