I corrieri // Sylvia Plath in “La voce dell’anima” – prof. Ciro Sorrentino

I CORRIERI // SYLVIA PLATH IN “LA VOCE DELL’ANIMA” – PROF. CIRO SORRENTINO

I corrieri

Parola di lumaca sul niente di una foglia?
Non è la mia. Non ti fidare.
Acido acetico in latta sigillata?
Non ti fidare. È roba adulterata.
Un anello d’oro con dentro il sole?
Bugie. Bugie e dolore.
Gelo su una foglia, l’immacolato
cratere, parlante e sfrigolante
tutto per sé sulla vetta di ognuna
di nove nere Alpi.
Un tumulto di specchi,
e il mare che frantuma il suo, grigio –
O mia stagione, amore.

04.11.1962, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

I CORRIERI // SYLVIA PLATH IN “LA VOCE DELL’ANIMA” – PROF. CIRO SORRENTINO

Per fornire un’analisi precisa delle ragioni psicologiche e interiori che hanno spinto Sylvia Plath a scrivere la poesia “I corrieri”, ci sembra necessario partire dall’ultimo verso, “O mia stagione, amore”. Il tono profondamente sentito scopre come Sylvia Plath faccia riferimento ad un’età felice, un tempo nel quale si è amata, e amandosi è riuscita ad interloquire e comunicare con la vita. Una nostalgica dolcezza sembra pronunciarsi, mentre una lacrima le scende sul viso. Amorevole ricordo d’una esperienza che fa parte del suo essere: è come se un quadro della sua vita si fosse materializzato.

Un aspetto esclusivo e privilegiato, uno spicchio di vita integro, vero e autentico, scopertamente genuino e giovane. Nella lungimiranza di uno sguardo retrospettivo, Sylvia Plath ripercorre il film/documento delle sue esperienze e si ferma a interloquire con un puro spettro, che di lei rappresenta la parte più reale e bella. È una comprensione totale del sé: Sylvia Plath ha raggiunto l’apice della comprensione, la distanza che le consente di poter osservare e misurare gli eventi senza coinvolgimenti emotivi. Di fatto, non si percepisce nessun sentimento di avversione verso qualcuno o qualcosa, quello che si avverte è solo l’intenzione di sottolineare quell’ ‘agnizione del sé’, la volontà di proteggere e di preservare la ‘fotografia’ così nitida della sua vita trascorsa.

Sylvia Plath vuole evitare sovrapposizione e contaminazione di immagini: una ed una sola è quella che la rappresenta. Ma in questa rivisitazione del sé non c’è nulla di autobiografico, perché parla a se stessa, e al suo io si rivolge, amandolo. Sylvia Plath è riuscita ad isolarlo nella molteplicità delle false identità, “I corrieri” appunto, che finiscono per scontrarsi e sovrapporsi, negarsi o dichiararsi all’unisono, creando alienante immobilità.

Parafrasando l’inciso, “O mia stagione, amore”, possiamo supporre che Sylvia Plath, guardandosi allo specchio, dica: ‘Dolce me stesso, attimo della mia anima, amorevole tassello di un mosaico cui la realtà non permette di ricomporsi, resta così, fermo nell’istante della fioritura eterna. Rimani nella tua lontananza, nell’imprendibile splendore azzurro, che nulla e nessuno può scalfire’. Sylvia Plath ha proiettato nell’oltre la sua immagine di luce metallica, e dalla precarietà della storia umana vuole proteggerla.

Ci è sembrato giusto, per una chiara interpretazione della poesia, individuare il ‘cosa’ o il ‘chi’ fosse l’interlocutore, ed è un’operazione necessaria per emancipare la letteratura critica da tanta predilezione per analisi ‘biografiche’ delle sue opere. È un fatto che Sylvia si rivolge alla sua anima, alla parte nascosta della sua persona che la individua e la definisce quale essenza già pervenuta al cielo, oltre le “nove nere Alpi” che sovrastano il mondo.

Fatta questa dovuta premessa, passiamo ad individuare ed identificare “I corrieri”, latori di false notizie, e chiediamoci perché annuncino messaggi distorti e devianti. Stando al terzo distico l’ “anello d’oro con dentro il sole”, esso rappresenta l’inutile fede di tutti “I corrieri” che cercano nei falsi idoli una Verità che sta ben oltre la precarietà di un oggetto prezioso: la perfezione è altro rispetto alla ricchezza e al fasto effimero e sfavillante d’un oggetto. Sono queste simulazioni, “Bugie e dolore”, le artificiose e artefatte macchinazioni che appartengono, non ad un singolo uomo, ma all’umanità intera.

È in questa prospettiva ad ampio raggio, in un discorso poetico di respiro universale, che va ricercato il vero oggetto di riflessione ne “I corrieri”, una riflessione che porta a scoprire la pochezza di un’umanità trinceratasi nelle cattedrali delle “bugie”. Sotto accusa è la doppiezza di quanti si prestano alla manipolazione dei sentimenti, di quanti imitano la perfezione (prova ne sia la ‘circolarità’ dell’anello), una perfezione artefatta che vorrebbe riprodurre l’armonia funzionale delle stelle, di quel Sole che riscalda e nutre la Terra.

Se nel terzo distico viene individuato il ‘chi’, nel primo viene svelato il ‘cosa’ “sul niente di una foglia”, in un breve alito di parole tarde, viete, arenate nella palude dell’incoerenza e dell’impossibilità a risolversi. È questo il significato di quella “Parola di lumaca”, parola sospesa nel suo trascinarsi e vagare senza meta, tutta appagata nel suo fragile guscio, che fa eco ad una solitaria e deserta storia. La ‘casetta’ della lumaca è una chiara allusione alla vanità di un mondo sistematosi nelle sue ‘trincee’, un mondo chiuso e isolato, lontano dalla scoperta del vero.

Si giunge così al secondo distico, dove vengono denunciate le manipolazioni intraprese dall’uomo sulla natura: “l’acido acetico in latta sigillata”, che dovrebbe insaporire, è piuttosto un veleno servito da chi è pronto a ferire ed uccidere. La scoperta dilagante perfidia spinge Sylvia Plath a vivere in una sorta di segreta e intima ‘autarchia’: proprio da questa scelta nascono i versi ermetici di un’opera poetica, “I corrieri”, che rappresenta e dice tutta la pena di Sylvia Plath e la sua amara onniscienza.

Nel quarto distico si annuncia la rinascita, perché l’ “immacolato cratere”, piuttosto che rappresentarsi come voragine nella terra, fa riferimento ad un orizzonte vastissimo, dalle tinte luminose e nitide, puntellato di candide luminescenze che sciolgono quel “gelo di una foglia”. È un orizzonte caldo e luminoso, “parlante e sfrigolante” negli echi provenienti dalle vallate che corrono tra quelle “nove nere Alpi”, sulle quali fremente si leva la voce divina ed epifanica di Sylvia. La simbologia del ‘nove’ richiama le vite percorse e vissute nell’oscurità dell’incoscienza: la decima è la vita che sta ardendo e fa parlare Sylvia Plath come un oracolo, la voce dell’anima che vuole e cerca l’ Altrove.

Da questa amara consapevolezza deriva un’agitazione che esplode come fragoroso spumeggiare di un mare che con le sue onde sbriciola ogni possibilità di specchiarsi per chi si è fermato su quelle “nove nere Alpi”. A questa evidente lungimiranza, che emancipa Sylvia Plath a creatura celeste, si contrappone un diffuso “grigio”, una foschia che avvolge e ottenebra le menti, precludendo ogni probabilità di vivere l’essenza e la sostanza della storia cosmica.

In questa prospettiva ‘scientifica’ e ‘filosofica’ va collocata e analizzata la vita di “una lumaca sul niente di una foglia”, la tremula foglia che rappresenta la Terra e la sua impercettibile presenza nello smisurato spazio senza tempo. Questa riflessione apre nuove prospettive di analisi, si potrebbe ipotizzare che Sylvia apparenti la terra a una ‘lastra’ riflessa dell’universo, a sua volta ‘lamina’ scaturita dalla ‘piegatura’ di altri universi paralleli.

E forse è proprio questo il messaggio autentico e taciuto ne “I corrieri”: nove universi oscurati dalle ombre dell’ immobilismo, da una parte, e, dall’altra, il decimo universo, quello luminescente di Sylvia Plath che tutti li comprende.  Se Sylvia Plath fosse a conoscenza degli studi della fisica quantistica non lo sappiamo, è certo però che già ai suoi tempi si discuteva di possibili universi paralleli.

Chiudiamo questo nostro intervento, dicendo con forza che, tra tutti “I corrieri” il vero nunzio della verità, che va al di là del comune sentire, è da riconoscere nell’inesauribile pensiero di Sylvia Plath, nella sua inconfondibile scienza e coscienza del tutto-nulla.

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Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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